Moebiusonline
Rivista di scienza


Il fruttosio satinato

Ingredienti: fruttosio, acido citrico, colorante per alimenti

Ingredienti: fruttosio in polvere, acido citrico in polvere, colorante alimentare

 

Ingredienti: fruttosio in polvere, acido citrico in polvere, colorante alimentare

Tempo di preparazione: circa 20 minuti

  

Il fruttosio satinato è un vetro.
Si può mangiare un vetro? Sì, si può. La domanda a cui vogliamo rispondere però è un’altra:
Si può produrre un vetro nella cucina di casa nostra?

Certamente, utilizzando il fruttosio.
Il vetro è una struttura della materia che si ottiene facendo raffreddare velocemente una sostanza che è allo stato fuso. Il processo di vetrificazione è infatti la trasformazione di un liquido viscoso o di un gel elastico in un solido vetroso.

Nella cucina scientifica di Moebius abbiamo utilizzato il fruttosio (facilmente reperibile in qualsiasi supermercato), perchè fondendo a basse temperature ci consente di manipolarlo a mani nude.  La manipolazione consiste in uno stiramento della pasta di fruttosio, prima che si solidifichi. Lo stiramento continuo provoca l’effetto “metallizzato”. L’acido citrico serve proprio per creare dei micro-solchi nella pasta, che riflettendo la luce conferisce l’effetto satinato.
Più la pasta viene lavorata più il vostro vetro sarà satinato.
Modellate quindi il vostro vetro a piacere.

Il colorante alimentare e l’acido citrico sono stati utilizzati unicamente per rendere “bello e buono” il piatto, non intervengono quindi nel processo di vetrificazione del fruttosio.

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Ricetta preparata dagli apprendisti cuochi:
Rosa vetrificata
(una caramella a forma di rosa)

 

Ricetta preparata dallo chef Luciano Tona
di ALMA – Scuola Internazionale di Cucina Italiana:
Paciugo
con panna, amarene e gelato
in una sfera di fruttosio satinato

 

Il paciugo è presentato in una sfera di fruttosio satinato

Il paciugo è presentato in una sfera di fruttosio satinato

la presentazione del paciugo una volta rotta la sfera di fruttosio satinato

la presentazione del paciugo una volta rotta la sfera di fruttosio satinato

altro su:

dessert “scientifici”

Tutte le ricette scientifiche

L’uovo marinato

Ingredienti - uovo marinato

Ingredienti: sale, zucchero, uova

 

Ingredienti: sale, zucchero, uova

Tempo di preparazione: dalle 3 ore in su

 

L’uovo marinato è un’intuizione del famoso chef milanese Carlo Cracco, che per questo piatto utilizza una tecnica a freddo basata sulla denaturazione delle proteine.

Perchè l’uovo si “cuoce” con lo zucchero e il sale?

Il sale e lo zucchero sono elementi igroscopici, assorbono cioè l’umidità. Il tuorlo è ricco di acqua e proteine. Nel momento in cui il sale e lo zucchero iniziano ad assorbire l’acqua, le proteine, che sono catene di aminoacidi, iniziano a srotolarsi e successivamente ad intrecciarsi (fenomeno di denaturazione delle proteine).
Questo provoca un effetto di solidificazione del tuorlo. Il maggiore indurimento si avrà nella parte esterna del tuorlo quella a contatto con la miscela di sale e zucchero.
Più l’uovo sta a contatto con il sale e lo zucchero più si solidifica anche al suo interno.

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Ricetta preparata dagli apprendisti cuochi:
insalata con uovo marinato, peperoni, acciughe e pecorino

Ricetta preparata dallo chef Luciano Tona
di ALMA – Scuola Internazionale di Cucina Italiana:
insalata di spaghetti integrali con alghe,
uovo marinato e missoltino

insalata di spaghetti integrali con alghe, uovo marinato e missoltino

insalata di spaghetti integrali con alghe, uovo marinato e missoltino

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antipasti “scientifici”

denaturazione delle proteine

Tutte le ricette scientifiche

Diálogos de Cocina

Torno, dopo la lunga pausa estiva, a riprendere il percorso iniziato qualche mese fa con la pubblicazione di “La nuova cucina scientifica” . Vi raccontavo di come il dibattito sui rapporti tra scienza e cucina, negli ultimi anni, fosse stato molto intenso. Tanto intenso che, all’inizio del 2007, Eurotoques, l’associazione europea dei cuochi, decide di organizzare un congresso in cui riunire cuochi, scienziati, scrittori, filosofi, ed altri protagonisti del dibattito. L’incontro si tiene a San Sebastian, e viene battezzato “Diálogos de Cocina”. La struttura del congresso è nuova e stimolante. Non ci sono dimostrazioni pratiche, ma solo conferenze e dibattiti. Ad ognuno degli invitati viene assegnato un tema da sviluppare, con un titolo suggestivo e non modificabile. Al sottoscritto tocca “Otras formas de ver”, che in italiano suona più o meno come “Altri modi di vedere”. Il tutto viene trasmesso in diretta su internet, e successivamente pubblicato in rete (chi volesse può trovare i video, che purtroppo non sono disponibili in italiano, cliccando QUI ).

Qui di seguito potete invece leggere il sunto in italiano di quell’intervento (già uscito in spagnolo su Cocina Futuro nel 2007). Lo spirito è decisamente diverso da quello dell’articolo precedente. Se là sostenevo le ragioni della ricerca e dell’innovazione, contro le paure e la miopia dei tradizionalisti ad oltranza, qui invece l’accento è sugli eccessi a cui può condurre un uso dogmatico e altrettanto miope della scienza. La letteratura e la rete straripano di esempi di questo cattivo utilizzo, ma sull’argomento ci soffermeremo un’altra volta. Per il momento, buona lettura!

Davide Cassi

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Otras formas de ver – Altri modi di vedere

di Davide Cassi

La scienza è un punto di vista particolare sul mondo e sulla realtà. Come tale, può essere utile a molte altre discipline ed attività umane, tra cui rientrano a buon diritto la cucina e la gastronomia. Nell’applicarla ad altri campi, è comunque necessario considerare quali siano i suoi meriti principali ed i suoi limiti ed eccessi.

A questo scopo, è illuminante una massima dovuta al naturalista francese del ‘700 Buffon:
« Il y a, dans l’histoire naturelle, deux écueils également dangereux: le premier, de n’avoir aucune méthode; et le second, de vouloir tout rapporter à un système particulier» (Ci sono, nella storia naturale [e nella scienza in generale] due scogli ugualmente pericolosi : il primo è non avere nessun metodo; e il secondo è il volere riferire tutto ad un sistema particolare).

La scienza è infatti soprattutto un metodo di ricerca, un’analisi critica dell’esperienza che mira a stabilire relazioni di causa ed effetto tra i vari aspetti e fattori di un fenomeno. E’ facile capire che questo metodo può essere applicato con successo alla cucina, utilizzando anche tutte le conoscenze che la ricerca scientifica ha portato nel corso della sua storia e che continua a portare ogni giorno.

E’ possibile ed auspicabile, in altre parole, che si sviluppi un’autentica Cucina Scientifica, una nuova disciplina che ricerchi nuove tecniche e nuovi piatti, e che porti ad una comprensione più profonda di piatti e tecniche già noti, utilizzando metodi e conoscenze scientifiche.

Nell’intraprendere questo cammino occorre evitare di cadere nel secondo degli scogli individuati da Buffon, ovvero di dare importanza eccessiva o esclusiva ad un punto di vista particolare e limitato. I rischi che si corrono, in questo caso, sono sostanzialmente tre, e si chiamano tecnicismo, riduzionismo e scientismo.

Il tecnicismo consiste nel considerare le tecniche e i metodi più importanti dell’oggetto da studiare o del risultato da ottenere: è un peccato di tecnicismo il voler utilizzare strumenti e tecnologie complesse per ottenere risultati che sarebbero ottenibili con metodi più semplici.

Il riduzionismo consiste nel considerare la comprensione dei costituenti elementari di un sistema sufficiente a spiegare ogni proprietà del sistema stesso: una folle affermazione riduzionista, ad esempio, è la seguente: “Il cervello è costituito da protoni, neutroni ed elettroni, quindi per capirne il funzionamento è sufficiente studiare le proprietà di protoni, neutroni ed elettroni. Nella prima metà dell’800, il poeta italiano Giuseppe Giusti stigmatizzava già quest’atteggiamento errato in un celebre epigramma: “Il buon senso, che già fu caposcuola, ora in parecchie scuole è morto affatto. / La scienza – sua figliola – l’uccise per veder com’era fatto”.

Lo scientismo consiste nel considerare la scienza capace di spiegare ogni aspetto del mondo e della realtà, ovvero nel trascurare tutti gli aspetti del reale che non sono spiegabili in termini scientifici. Il credere che il bello e il buono siano descrivibili scientificamente è una delle tipiche follie dello scientismo.

Anche in gastronomia è possibile commettere questi errori.

Esiste un tecnicismo culinario, che privilegia la tecnica rispetto al piatto, che a volte inventa piatti di scarso valore gastronomico come pure esemplificazioni di novità tecniche. Nella scienza, come in gastronomia, nelle arti ed in ogni attività umana correttamente interpretata, la tecnica è sempre e soltanto funzionale al risultato e, nei casi eccelsi, è addirittura offuscata dal valore intrinseco del risultato ottenuto: in musica, il virtuoso non è colui che fa apprezzare la difficoltà del pezzo che esegue e dunque le sue doti tecniche, ma colui che rende la difficoltà impercettibile all’ascolto, in un’impressione di totale leggerezza e naturalezza.

Esiste, similmente, un riduzionismo gastronomico, che pretende di capire un piatto, un sapore, un aroma scomponendolo in parti più semplici e perdendo così di vista l’armonia dell’insieme di queste parti, che è l’essenza stessa di quel piatto, sapore o aroma. Proprio per evitare il rischio di una simile visione riduzionista, considero ormai da evitare termini come gastronomia molecolare e cucina molecolare, che sono discipline possibili, ma assolutamente parziali e riduttive se prendiamo alla lettera il significato che il termine molecolare assume nel linguaggio scientifico: infatti, ridurre gli aspetti scientifici della gastronomia alle sole proprietà delle molecole è come pensare di spiegare il cervello studiando protoni, neutroni ed elettroni.

Lo scientismo gastronomico tocca i fondamenti stessi della cucina scientifica: consiste nell’illusione che la scienza possa stabilire oggettivamente che cosa è buono da mangiare e quale sia la procedura scientificamente corretta per cucinare un piatto buono. In realtà, tutto questo riguarda la sfera estetica dell’esperienza umana e, come tale, è del tutto indipendente dalla scienza. Il punto di vista scientifico non può arrivare a stabilire cosa sia buono o bello: nelle arti visive, la scienza ci permette di analizzare in dettaglio un colore, di ottenerne lo spettro, di modificarlo e di crearne di nuovi; ma non potrà mai dirci se quel colore o quei colori sono belli. Allo stesso modo, la scienza ci permette di inventare nuove tecniche di cucina e nuovi piatti, ma non è in grado di dirci se quei piatti sono buoni.

Il vertice più alto della conoscenza scientifica sta nel riconoscere i propri limiti, e il punto di vista scientifico, in gastronomia, non può essere totalizzante. E’utile, senza dubbio. E’ nuovo e promettente. Ma deve integrarsi ed armonizzarsi con tutti gli altri punti di vista possibili: da quello estetico, a quello nutrizionale, a quello culturale, a quello etico. E tutti questi punti di vista sono comunque subordinati al punto di vista gastronomico, che resta la visuale caratterizzante della disciplina di cui ci occupiamo: ovvero, tutto deve essere funzionale al buono da mangiare.
In definitiva, non si tratta di verificare se una procedura gastronomica sia scientificamente corretta, ma piuttosto di stabilire se un’idea scientifica sia gastronomicamente sensata.

La vera rivoluzione non consiste nell’osservare la cucina dal punto scientifico, ma nel vedere la scienza dal punto di vista gastronomico.
La cucina scientifica può nascere, dunque, come disciplina integrante in un percorso di studio gastronomico più articolato e complesso, che non trascuri gli aspetti non scientifici del problema.

Recentemente ho vissuto, insieme al grande chef italiano Fulvio Pierangelini, un’esperienza importante ed illuminante per comprendere il giusto ruolo di ogni punto di vista in gastronomia.
Volevamo inventare un piatto nuovo, che non fosse un semplice gioco o uno sfoggio di maestria. Volevamo che fosse utile a qualcuno, sano, tradizionale ed innovativo ad un tempo. Abbiamo pensato ai celiaci, che non possono mangiare cibi che contengono glutine e devono dunque privarsi dell’impareggiabile testura al dente della pasta di farina di grano duro.
Le farine di legumi sarebbero perfette per un celiaco, ma non sono impastabili con acqua a freddo. E’possibile trasformarle in gel, con la tecnica che i cinesi usano da secoli per gli spaghetti di riso, ma la testura molle e collosa di queste preparazioni non ha mai incontrato i gusti degli italiani. Decidemmo di concentrarci sulla farina di ceci, perché apparteneva comunque alla tradizione italiana (in Sicilia si preparano le panelle, in Toscana la cecina, in Liguria la farinata), e perché uno dei piatti più celebri ed imitati di Fulvio era la passatina di ceci e gamberi. Dopo qualche mese trovai il modo di rendere impastabile la farina di ceci denaturandone le proteine a secco in forno tiepido, e con la pasta poi ottenuta Fulvio Pierangelini creò degli incredibili ravioli di ceci ripieni di gamberi, che erano ispirati alla tradizione, ma assolutamente innovativi scientificamente, etici (il bene dei celiaci…), ottimi dal punto di vista nutrizionale, belli da vedere, ma, soprattutto, buonissimi da mangiare.

Riflettendo su tutto questo, convenimmo sul fatto che ogni aspetto possibile della cucina, in quel piatto, non era dominante, ma perfettamente armonizzato agli altri. Non potevamo definire quel tipo di cucina semplicemente scientifica, tradizionale, etica, estetica, dietetica, o altro. L’unica parola possibile era cucina totale.

Ed è proprio mirando ad un’ideale cucina totale che la scienza potrà e dovrà dare i suoi migliori contributi ad un’arte tanto antica quanto indispensabile al genere umano.

Raviolo target: fare centro con il gusto

RICETTA di Nicola Passarelli

Raviolo target

Raviolo target

Ingredienti

Pasta alla lecitina:
farina tipo 0 100 gr.
lecitina 15gr.
Acqua 40/45gr.

Farcia ravioli:
zucchine 120 gr.
Patate 75gr.
Peperoni 20gr.
Cipolla 50gr.
Olio extra 75gr.
Sale

Condimento del raviolo:
Olio extra 50gr
Salsa di pomodoro 10gr (1 cucchiaio)
Acqua di cottura 50gr
Basilico 6 foglioline.

Preparazione

Per la pasta alla lecitina mettere in ammollo la lecitina con la quantità d’acqua necessaria per impastare la farina. Trascorsi circa trenta minuti
impastare la lecitina e la farina e formare un impasto. Lasciare riposare
per alcuni minuti coperto. (Foto 1/2)

Per la farcia o sarebbe meglio parlare di farce procedere tagliando la zucchina e il peperone in piccoli cubetti, mentre la patata a fette sottili. Cuocere separatamente ognuno dei tre ortaggi in una padella dove è stata fatta rosolare leggermente della cipolla tritata finemente con olio. Far cuocere per circa 20 minuti a fuoco moderato, bagnare con un po’ d’acqua nel caso asciugassero, salare.

Stendere l’impasto in una sfoglia finissima, trasparente(foto 3), cosa impossibile con un normale impasto preparato senza la lecitina. Tagliare
 dei dischi di varie dimensioni ( foto 4).

Mettere le zucchine sul disco grande (foto 5), inumidire i bordi del disco e ricoprire con l’altro disco(Foto 6). Disporre le patate sopra questo primo raviolo(foto 7), inumidire il disco di dimensioni medie e coprire le patate. Ripetere la stessa operazione per i peperoni (Foto 8) e coprire con il disco di pasta più piccolo. (Foto 9)

Far cuocere i ravioli in acqua bollente e salata per qualche minuto,
dopodichè scolarli e disporli in una padella dove è stato versato dell’olio e un cucchiaio di salsa di pomodoro facendoli ripassare sul fuoco qualche istante, aggiungere alcuni cucchiai d’acqua di cottura e del basilico.

Commento

Un raviolone multistrato che ricorda un target. Potrebbe sembrare insolita questa forma, ma rende molto l’idea del crescendo di sapori che si sentono man man che si mangia arrivando al centro dove si possono assaporare tutti gli ingredienti contemporaneamente, facendo centro con il gusto.

In questa ricetta ho cercato di mettere in risalto quali sono i vantaggi di una pasta dove come ingrediente è utilizzato la lecitina di soia in aggiunta alla farina e all’acqua.

Pensando alle caratteristiche di questa pasta mi è venuto in mente di fare un raviolo multistrato dove ogni ingrediente è separato dall’altro da una sfoglia sottilissima ottenuta grazie alla presenza di lecitina all’interno dell’impasto che favorisce una maggiore coesione tra la farina e l’acqua evitando rotture della pasta quando si raggiunge una sottigliezza estrema stendendola. Un altro vantaggio nell’utilizzo di una sfoglia sottilissima è quello che la pasta non va a compromettere il gusto del condimento ma grazie alla lecitina diventa un ponte d’unione fra i vari ingredienti. Una volta stesa la prima sfoglia ho notato che potevo ottenere una pasta quasi trasparente, così ho pensato di mettere in successione i vari ingredienti, ottenendo un raviolo “target”.

Festival delle Passioni di Mantova

La passione per il gelato all’azoto

Sabato 4 luglio 2009 a Mantova, durante la rassegna Festival delle passioni, il prof. Davide Cassi e Costantino Sanelli, della Gelateria Sanelli, prepareranno il gelato con l’azoto liquido per tutti partecipanti!
Per info: www.festivaldellepassioni.it

La nuova Cucina Scientifica

La discussione suscitata dai servizi di Striscia la Notizia riguarda una serie di temi che, nel mondo degli addetti ai lavori, sono già stati affrontati e, per molti aspetti, risolti da tempo. Il dibattito intorno a questi argomenti, come è naturale, è avvenuto in congressi e riviste specializzate, e le informazioni non sono facilmente accessibili agli utenti della rete. Per questo ho deciso di pubblicare in questo blog alcuni articoli che ho scritto negli anni scorsi, rendendoli disponibili a tutti. Il primo che vi propongo qui di seguito è stato pubblicato, in italiano ed in inglese, su Coffee Magazine nel 2006 e, nel 2007, in spagnolo su Cocina Futuro.

 

La nuova cucina scientifica di Davide Cassi

La differenza tra un reperto archeologico e un prodotto tradizionale sta nella capacità di quest’ultimo di evolversi, seguendo i mutamenti delle abitudini, delle società, degli stili di vita, delle tecniche, delle materie prime, mantenendo viva la sua anima, e non le sue manifestazioni contingenti.
La differenza tra una frivolezza alla moda ed un’innovazione sta nella capacità della nuova idea di cambiare mantenendosi fedele a se stessa, di spogliarsi di tutto ciò che è inessenziale, rivestendosi di volta in volta di nuovi panni che la facciano sopravvivere alle variazioni di gusto, di mentalità, di generazione.
Attenendoci a questi punti fermi, possiamo evitare di cadere in estremismi dogmatici, e talvolta ridicoli, nell’affrontare l’eterna diatriba tra innovatori e conservatori, che negli ultimi anni ha trovato nella gastronomia il suo terreno di battaglia prediletto.
Il tradizionalismo culinario, molto spesso, quasi sfocia in una forma moderna di moralismo bacchettone: non è raro imbattersi in personaggi, assolutamente aperti al nuovo in altri settori della vita, che si stracciano le vesti perché la ricetta della nonna è stata un po’ cambiata.
Costoro sembrano ignorare che la nonna stessa, con ogni probabilità, aveva apportato i suoi piccoli miglioramenti a quel piatto, che le era stato insegnato dalla mamma o dalla zia, e che queste ultime avevano agito a loro volta allo stesso modo. Chi conosce il mondo dei fornelli, domestici o di ristorante che siano, sa benissimo che chi è bravo a cucinare non accetta mai una ricetta, anche ottima, alla lettera, ma si ingegna e si arrovella per migliorarla. (Chi non è bravo a cucinare, d’altro canto, normalmente riesce a peggiorare qualunque piatto anche rispettando la ricetta, e certamente non contribuisce alla buona reputazione della tradizione…)
L’idea di progresso è presente in ogni piccolo aspetto della nostra quotidianità. Il cambiamento, il movimento, la ricerca del nuovo fanno parte del nostro essere. Se non ci vestiamo, non parliamo, non cantiamo, non balliamo, non viaggiamo, non ci divertiamo allo stesso modo dei nostri bisnonni, non si vede perché dovremmo tornare a mangiare come loro.
Eppure, nella nostalgia di un’inverosimile età dell’oro della gastronomia, si sono concentrate gran parte delle paure umane nei confronti di un progresso tecnologico tanto rapido da sfuggirci quasi di mano.
La paura del nuovo è subentrata al desiderio di novità. La ricerca sembra essere responsabile di crimini e sacrilegi. Si teme la scienza cattiva, la scienza della bomba atomica e degli additivi cancerogeni, della diossina, di Bhopal e di Chernobyl.
L’uomo, terrorizzato dopo aver varcato le colonne d’Ercole della conoscenza, vuole tornare a vele spiegate nelle acque calme del passato, che hanno il profumo rassicurante della crostata che la mamma sfornava a colazione, quando si era bambini e tutto andava bene.
Ma a quando risalirebbe la tanto sospirata età dell’oro? E’ divertente interrogare sull’argomento qualche tradizionalista ad oltranza. Mi è capitato addirittura di incontrare un sedicente custode delle tradizioni, convinto che già gli antichi romani mangiassero l’insalata caprese… In realtà la cucina degli antichi è diversissima dalla nostra, a partire dalle materie prime: il laserpicium, onnipresente nelle ricette di Apicio, si è estinto, noi non siamo più ghiotti di ghiri, e patate, mais, peperoni e pomodori ci sono arrivati dalle Americhe solo pochi secoli fa. Nel frattempo, ci siamo dati da fare inventando tecniche nuove per ricavare piatti prelibati da ingredienti antichi: la maionese, che sarebbe stata alla portata di qualunque popolazione mediterranea prima della nascita di Cristo, fa la sua comparsa nel XVIII secolo, più o meno insieme alla meringa, mentre Escoffier inventa la Pesca Melba in piena Belle Epoque. Le nuove materie prime, poi, ispirano ricette fantastiche, ignote ai popoli che prima ne erano gli unici fruitori: nel XIX secolo l’Europa è la culla del cioccolato, Torino ci regala il gianduiotto e Napoli la Pizza Margherita.
Ogni piatto della tradizione ha una sua data di nascita, e questa, di solito, è più recente di quanto non si pensi. Chi vi scrive, dopo aver mangiato per anni gli scialatielli durante i suoi viaggi in Campania, ed essendosi convinto che fossero un piatto moderatamente “antico”, ha avuto il piacere e lo stupore di conoscere di persona, pochi mesi fa, lo chef Enrico Cosentino che li inventò nel 1976… Questa esperienza recente mi ha confermato l’infondatezza di un altro luogo comune propugnato dagli ultratradizionalisti: l’idea che le novità nascano e si affermino con grande lentezza, e che lentissima sia l’evoluzione del gusto e della cucina. Niente affatto, signori miei: la gastronomia si evolve con improvvise discontinuità. Arriva il pomodoro e tutti vogliono la pummarola, arriva la tavoletta di cioccolato e tutti la divorano, arriva il frigorifero e nessuno riesce a farne a meno. Si tratta di autentiche “rivoluzioni gastronomiche”, che in pochi anni cambiano il mondo della tavola.
E proprio in questi anni stiamo vivendo l’ultima di queste rivoluzioni, che chiameremo quella della “cucina scientifica”. Cucina scientifica, si noti bene, e non “cucina molecolare”, come molti ancora vorrebbero chiamarla. Perché “molecolare” è un termine in qualche modo imposto dall’esterno a noi che quest’avventura la stiamo vivendo in prima persona. Un termine che suona a volte modaiolo e a volte inquietante. Un termine, soprattutto, riduttivo, che non rende giustizia a un’esperienza profonda e seria. La sua origine risale a un convegno organizzato ad Erice nel 1992, dal titolo “Molecular and physical gastronomy” (Gastronomia fisica e molecolare), il cui grande protagonista era il neo premio Nobel per la fisica Pierre Gilles De Gennes. Lo scopo di quell’incontro, che continua a ripetersi con una certa regolarità, era di “sdoganare” la cucina presso la comunità scientifica ufficiale: non dovevano più essere solo i tecnologi ad occuparsi di cibo, ma gli adepti delle cosiddette “scienze dure”, come la fisica e la chimica, che venivano per l’occasione invitati ad interagire con cuochi e pasticcieri. Chi frequenta l’ambiente scientifico può capire immediatamente il significato di quel titolo: era una maniera moderna, un po’ provocatoria e scherzosa, di dichiarare la volontà di studiare la gastronomia dal punto di vista della fisica e della chimica “fondamentali”. In una delle edizioni successive, il titolo venne abbreviato in “Molecular gastronomy”, che lo rendeva più agile e mediatico. Dall’interazione tra cuochi e scienziati, poi, iniziarono a nascere nuove idee ed anche tecniche e ricette di cucina, che, per analogia, qualcuno cominciò a chiamare “cucina molecolare”.
Le novità, si sa, fanno discutere, e le discussioni fanno pubblicità. Dopo un primo periodo di scontato scetticismo, prima i critici, poi un pubblico crescente, riconoscono che in quelle novità c’è del buono. Allora ha inizio la corsa al marchio: in tanti vogliono appropriarsi delle nuove tecniche di ispirazione scientifica, anche solo per potersi vantare di essere alla moda. Ma queste, in sé, non sono sufficienti per dare grandi risultati: allo chef occorre innanzitutto una notevole dose di buon gusto e, soprattutto, la capacità di mettere le tecniche al servizio di quest’ultimo. La “cucina molecolare” è solo una possibilità in più offerta al mondo dei fornelli, e il fatto di seguirla non può essere, da solo, una garanzia di qualità. Lasciamo allora perdere un nome così specifico e curioso: diciamo semplicemente “cucina scientifica”, per indicare che, nel cucinare, ci si avvale delle più recenti innovazioni proposte degli scienziati che si occupano, seriamente e professionalmente, di cucina. La qualità dipenderà dall’esecuzione, e dunque dallo chef, che si deve assumere il merito e la responsabilità del risultato. Questo cambiamento di prospettiva ci aiuterà a far giustizia delle tante frivolezze alla moda, di cui dicevamo all’inizio, e a conservare solo le autentiche innovazioni: perché queste ci sono, e sono tante. C’è un modo sicuro per capire quando una nuova idea gastronomica è destinata ad avere un futuro: verificare la sua capacità di essere assimilata dalla gente comune. Tutto ciò che non riesce ad uscire dal mondo dei grandi ristoranti difficilmente sopravvive ai cambiamenti della moda. Per questo, noi che crediamo nella nuova cucina scientifica, ci stiamo prodigando in un’intensissima attività di divulgazione. Tutti devono avere la possibilità di conoscere, provare e giudicare, per poter superare i pregiudizi e decidere in prima persona.
Il rischio della frivolezza, della cucina degli effetti speciali, scompare velocemente quando la conoscenza diffusa fa sfumare l’alone di mistero, quando quella che prima era per i più una sorpresa si avvia a diventare una consuetudine. E’ allora che subentra il desiderio della ripetizione, che è la prova concreta della validità dei contenuti e della capacità dell’invenzione di svilupparsi e farsi tradizione.
Il nostro cavallo di battaglia, negli ultimi tempi, è diventato il gelato all’azoto liquido. Non è certo l’unico apporto della cucina scientifica, e forse nemmeno il più importante, ma riunisce in sé una serie di aspetti che lo rendono emblematico e ne fanno un potente strumento di divulgazione.
L’azoto è il principale componente dell’atmosfera (circa il 78% dell’aria secca). Lo respiriamo continuamente, ci appartiene. Solo la diffidenza per tutto ciò che sa di nomenclatura scientifica ce lo può rendere apparentemente estraneo. A temperatura ambiente, e a tutte le temperature di qualche interesse in cucina, è un gas inerte, il che significa che non reagisce chimicamente con nulla. Diventa liquido grazie ad un trattamento puramente meccanico, un ciclo di compressioni ed espansioni, che dovremmo vedere all’opera per convincerci di quanto sia intimamente naturale. La temperatura di liquefazione, a pressione atmosferica, è di 195,8 gradi sottozero. Una temperatura non gastronomica: se lo mettessimo in bocca tale e quale ci provocheremmo delle serie ustioni da freddo. Ma nemmeno l’olio bollente, di solito, si mette in bocca, pur essendo un fondamentale mezzo di cottura. La differenza è che nell’olio bollente non ci sogneremmo nemmeno di mettere una mano, mentre nell’azoto liquido questo si può fare tranquillamente, a patto di non indugiare: esattamente come si può mettere, per pochi secondi, una mano nel forno caldissimo, o passare velocemente un dito sulla fiamma di una candela. Mi sembra assurdo insegnare che per maneggiare l’azoto liquido ci vogliono guanti e occhiali protettivi, quando da qualche millennio friggiamo senza usare scafandri da palombaro. Di nuovo, è la diffidenza per la scienza che spaventa, ma l’azoto liquido, in realtà, è estremamente amichevole. Non starò qui a tediarvi con dettagliate istruzioni pratiche e precauzioni d’uso, che peraltro ho già discusso abbondantemente nel libro “Il gelato estemporaneo”. Mi preme solo farvi notare che il nostro liquido criogenico ha tutte le carte in regola per entrare nelle nostra prassi culinaria senza sconvolgimenti, e, una volta entrato, restarvi per sempre.
Sono sicuro che i bianchi vapori freschi, che si sprigionano dalle pentole irrorate di azoto liquido, diventeranno presto parte della scenografia quotidiana delle nostre cucine. Che le mamme prepareranno ai bambini, ogni volta che lo chiederanno, un morbido gelato di fiordilatte in pochi secondi, versando l’azoto anche solo su un bicchiere di latte e panna freschissimi, certe di preparare un prodotto più gustoso e più sano. Realizzare un gelato estemporaneo è quasi banale: si mette la base liquida da trasformare (un succo di frutta, o latte, o crema inglese, o caffè, o vino, o olio aromatizzato, o quello che vi pare…) in una pentola metallica; poi, senza aggiungere additivi o porcherie chimiche di sorta, si versa l’azoto liquido e si mescola. L’azoto, a contatto con la base, per lui caldissima, evapora estraendo aromi, così la raffredda velocemente e la gonfia di tante piccolissime bollicine profumate. Tutto è fisico, tutto è naturale. Non avvengono reazioni chimiche che alterano la natura degli ingredienti, e alla fine ci troviamo con un gelato di qualità diversa e superiore. Più cremoso, perché i cristalli di ghiaccio che si formano sono tanto piccoli da non essere percepiti dalla bocca. Più aromatico, per la presenza delle bollicine profumate. Meno “freddo”, perché, pur avendo temperature simili a quelle degli altri gelati, contiene meno ghiaccio e dunque lascia la bocca piacevolmente fresca senza congelarla.
Il gelato estemporaneo è la preparazione più semplice e più ovvia che si possa realizzare con l’azoto liquido. La cucina del grande freddo è solo agli inizi, questo dev’essere chiaro. Ma iniziando con una ricetta alla portata di tutti, si può innescare un processo di profondo cambiamento. E’ una ricetta democratica: nessuno può vantarne seriamente la paternità. I fisici preparavano il gelato estemporaneo già più di un secolo fa. Semplicemente, ci sono voluti più di cent’anni per capire che si trattava di un’innovazione gastronomica e non di un gioco. La tecnologia necessaria esisteva già a fine ‘800: la novità sta nel cambiamento del punto di vista. Ora anche gli scienziati cominciano a guardare le cose con l’”occhio gastronomico”. E’ un “cambiamento di paradigma” potremmo dire, parafrasando l’epistemologia di Kuhn. Ma i cambiamenti di paradigma, nella scienza, sono le rivoluzioni.

Davide Cassi

Coquilles St. Jaques molecolare

RICETTA di Luciano Furia

1) Ingredienti pronti per un veloce fumetto di pesce: alcuni tranci di pesce e un paio di chele

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2) Ingredienti pronti per il fumetto di pesce: porro, prezzemolo, maggiorana, timo, cipolla, sedano, alloro, pepe bianco in grani e sale marino.

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3) Filtraggio del fumetto di pesce

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4) Cagliata d’uovo: 4 uova appena sbattute e pronte per la cottura in alcol puro. Ogni conchiglia richiederà l’equivalente di circa 2 uova
Vedi anche la ricetta del Prof. Cassi
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5) Alcol puro appena aggiunto all’uovo

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6) La cagliata d’uovo è pronta quando diventa della consistenza di un uovo strapazzato cotto in modo tradizionale

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7) Cagliata messa in un colino molto largo e posto sotto un filo d’acqua (per 3-5 minuti)

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8) L’acqua filtrata e` abbastanza colorata

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9) Cagliata d’uovo dopo il lavaggio e prima della strizzatura nel canovaccio

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10) Cagliata nel canovaccio per la strizzatura

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11) Ecco la cagliata pronta per l’uso

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12) Impasto per coquilles St. Jagues: 2 cucchiai di cagliata, 2 cucchiaini di fumetto di pesce, 2 cucchiaini di brodetto di vongole, 1 cozza, 6 vongole (sminuzzate), 2 cucchiaini di panna da cucina, pepe bianco, sale rosa e alle alghe, spolverata di noce moscata

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13) Conchiglia pulita. La grande conchiglia naturale e vuota e` disponibile dai rivenditori all’ingrosso di prodotti alimentari

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14 La conchiglia prima di essere informata per 5 minuti a 180 °C seguito da 2 minuti al grill

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15) In alternativa e` possibile preparare delle “cozze St. Jaques” riducendo i quantitativi, anche se l’impatto visivo non e` certamente lo stesso

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16) Conchiglia pronta per essere informata, anche per dare le dimensioni (circa 12 cm di larghezza)

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17) Ecco il piatto finito, guarnito con una vongola verace e qualche goccia extra vergine aromatizzato al prezzemolo o al basilico.
Il sapore e` molto ben armonizzato fra la componente di testura e gli aromi di pesce e molluschi.
L’assenza pressoché totale di condimenti tradizionali (olio o burro) e il mancato “sapore di uovo” che potrebbe venire dalla cagliata, ne fanno un concentrato di aromi di mare estremamente appetibile.

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Salsa soffice al limone

RICETTA di Nicola Passarelli

 

Asparagi con salsa al limone

Asparagi con salsa al limone

 

 

INGREDIENTI per 2 persone
30 gr di lecitina granulare ( Foto 1)
20 ml di succo di limone (circa 3 cucchiai da zuppa)
50 ml di acqua cottura asparagi chiarificata (circa 7 cucchiai da zuppa)
10 asparagi coltivati
1 limone

Preparazione
Versare il succo di limone sulla lecitina granulare e rimestare delicatamente con un cucchiaio affinché tutti i granuli s’inumidiscano e far riposare circa 30 minuti (foto 2). Nel frattempo cuocere gli asparagi in acqua bollente per 10 minuti. Una volta cotti vanno tolti dalla pentola e immersi in un contenitore con acqua e ghiaccio affinché la cottura venga
fermata e il colore rimanga di un bel verde. L’acqua di cottura va tenuta da parte.
Trascorsi i 30 minuti i granuli di lecitina saranno completamente sciolti, per verificare basterà girare il tutto con una frusta ( foto 3).
Solitamente si usa dell’acqua per sciogliere la lecitina, ma questa volta è stato usato del succo di limone così da ottenere subito una crema con il gusto di limone. A questa crema va aggiunta l’acqua di cottura degli asparagi ( che sia a temperatura ambiente ) e va montata servendosi di una frusta o un minipimer.( foto 4, ). Quando la salsa raggiunge un aspetto
cremoso, meno denso e una colorazione più chiara sarà pronta per essere servita (foto 5).

COMMENTO

E’ il primo modo in cui ho utilizzato nella preparazione di un piatto, la lecitina come ingrediente. Vedi anche la ricetta del Prof. Cassi per le salse alla lecitina.
La ricetta è semplice: asparagi bolliti accompagnati da una salsa alla lecitina ottenuta con del limone e l’aggiunta dell’acqua di cottura degli asparagi . Non ho voluto fare una ricetta molto elaborata perché penso che in cucina si debba andare verso la ricerca del semplice e non indirizzarsi verso architetture complicate come la torre di babele. L’asparago è una verdura che fin mille anni prima di cristo era conosciuto e mangiato, al tempo dei greci e dei romani era una leccornia e più tardi per quanto era apprezzato e pregiato si cominciò a fare uso di surrogati come i germogli di porro,che ho riportato in questa ricetta intorno alla buccia di
limone che contiene la salsa che accompagna gli asparagi (foto 6). Il limone ricopre un duplice ruolo in questa ricetta: uno dal punto di vista del gusto ,perché lo ritroviamo nella salsa e uno visivo perché il solo
fatto di guardarlo fa venire l’acquolina in bocca, tanto da esserne stimolato anche l’appetito. E’ stato un tentativo per ridare agli asparagi il gusto completo che hanno, quando sono ancora crudi.Come sappiamo durante la bollitura perdono importanti sostanze all’interno dell’acqua. Riflettendo su questo fatto ho pensato alle caratteristiche di un eventuale salsa fatta con la lecitina: consistenza cremosa e gusto neutro; così ho deciso di realizzare una crema
dove, invece di usare la semplice acqua, per montare la lecitina, ho messo parte del liquido di cottura, così da ottenere una salsa il cui gusto ricorda quello degli asparagi che allo stesso tempo è aromatizzata al limone .
Una volta che si sarà intinto l’asparago nella salsa ,quando andremo a mangiarlo si avvertiranno in bocca una successione di sensazioni vellutate che ruotano intorno al gusto dell’asparago.

Le due cagliate: tradizione e innovazione

RICETTA di Nicola Passarelli

 

L'innovazione nella cagliata

L'innovazione nella cagliata

 

INGREDIENTI
85 gr di cagliata d’uovo
50 gr di robiola
Erbe aromatiche: timo, origano, maggiorana finocchietto, erba cipollina
Aglio fresco
Peperoncino

Preparazione
Preparare la cagliata d’uovo (Foto1, Foto2, Foto3).

Stendere la cagliata d’uovo tra due fogli di pellicola trasparente usando un matterello e prestare attenzione nel compiere quest’operazione (Foto4 e Foto5).

Fare una sfoglia dello spessore 2/3 mm e con un coppa pasta del diametro di 4 cm (”coppa pasta” è un francesismo, molto usato dai cuochi, si dice anche “tagliapasta” o “coppapasta”) tagliare i dischi di cagliata, se non si possiede il coppa pasta, si può utilizzare anche un bicchierino. Disporre questi dischi su un piatto (Foto6). Suddividere la robiola in sette parti e aromatizzarle ognuna con un diverso ingrediente: timo, origano, maggiorana finocchietto, erba cipollina, aglio fresco, peperoncino (Foto7). Una volta pronta la robiola con le diverse aromatizzazioni disporre sopra ogni disco un aroma diverso. Completare il tutto coprendo con un altro disco di cagliata delle stesse dimensioni di quello che è stato messo alla base (Foto8). Ovviamente le aromatizzazioni e le dimensioni dei dischi possono anche variare a piacimento.

COMMENTO

Il piatto della foto in alto è quello che la fantasia mi ha suggerito per la presentazione della cagliata d’uovo. Mi è parso interessante unire due cagliate: quella tradizione del latte con quella innovativa dell’uovo. Il formaggio che ho utilizzato è una robiola di latte vaccino aromatizzata con varie erbe aromatiche e peperoncino. Il primo tentativo l’ho fatto con una robiola di latte di capra, ma il sapore troppo pungente di questa va a coprire l’aroma delle erbe. Nella parte alta del piatto ho disposto gli ingredienti base di questa preparazione: il formaggio, il guscio d’uovo che rappresenta l’uovo, all’interno di questo l’alcol ( l’alcol sta bruciando, ma in questa foto non si riesce a vedere). Da questi elementi base partono sette frecce con le punte colorate dei colori dell’arcobaleno, che indicano sette dischi di cagliata che all’interno dei quale c’è la farcia di formaggio di latte vaccino e un’erba aromatica, che istintivamente ho abbinato ad un colore così in corrispondenza del viola ho messo il timo, dell’indaco l’origano, del celeste la maggiorana, del verde il finocchietto, del giallo l’erba cipollina, dell’arancione aglio fresco e in corrispondenza del rosso il peperoncino. L’insieme dei dischi rappresenta una freccia che va rivolta verso il commensale in modo che si senta completamente coinvolto nella degustazione di questo piatto.

La cucina molecolare secondo Striscia e secondo la Scienza

Spesso quando i media si occupano di tematiche scientifiche, o che coinvolgono aspetti scientifici, l’impressione di chi come noi fa divulgazione scientifica è che si mettano sullo stesso piano opinioni di scienziati e di non addetti ai lavori. C’è la percezione che si debba rispettare una sorta di par-condicio per cui, se si intervista l’astronomo, si deve anche sentire la voce dell’astrologo. Come il caso di questa settimana e della trasmissione ‘Striscia la notizia’ in cui un inviato ha svolto un’inchiesta sulla cucina molecolare, accusando uno degli chef più famosi e quotati, Ferran Adrià, di utilizzare additivi chimici nocivi per la salute. Abbiamo la sensazione che ci sia una certa confusione intorno al concetto di additivo. Facciamo il punto con il nostro fisico buongustaio Davide Cassi.

Ascolta l’audio dell’intervista al professor Cassi