La discussione suscitata dai servizi di Striscia la Notizia riguarda una serie di temi che, nel mondo degli addetti ai lavori, sono già stati affrontati e, per molti aspetti, risolti da tempo. Il dibattito intorno a questi argomenti, come è naturale, è avvenuto in congressi e riviste specializzate, e le informazioni non sono facilmente accessibili agli utenti della rete. Per questo ho deciso di pubblicare in questo blog alcuni articoli che ho scritto negli anni scorsi, rendendoli disponibili a tutti. Il primo che vi propongo qui di seguito è stato pubblicato, in italiano ed in inglese, su Coffee Magazine nel 2006 e, nel 2007, in spagnolo su Cocina Futuro.
La nuova cucina scientifica di Davide Cassi
La differenza tra un reperto archeologico e un prodotto tradizionale sta nella capacità di quest’ultimo di evolversi, seguendo i mutamenti delle abitudini, delle società, degli stili di vita, delle tecniche, delle materie prime, mantenendo viva la sua anima, e non le sue manifestazioni contingenti.
La differenza tra una frivolezza alla moda ed un’innovazione sta nella capacità della nuova idea di cambiare mantenendosi fedele a se stessa, di spogliarsi di tutto ciò che è inessenziale, rivestendosi di volta in volta di nuovi panni che la facciano sopravvivere alle variazioni di gusto, di mentalità, di generazione.
Attenendoci a questi punti fermi, possiamo evitare di cadere in estremismi dogmatici, e talvolta ridicoli, nell’affrontare l’eterna diatriba tra innovatori e conservatori, che negli ultimi anni ha trovato nella gastronomia il suo terreno di battaglia prediletto.
Il tradizionalismo culinario, molto spesso, quasi sfocia in una forma moderna di moralismo bacchettone: non è raro imbattersi in personaggi, assolutamente aperti al nuovo in altri settori della vita, che si stracciano le vesti perché la ricetta della nonna è stata un po’ cambiata.
Costoro sembrano ignorare che la nonna stessa, con ogni probabilità, aveva apportato i suoi piccoli miglioramenti a quel piatto, che le era stato insegnato dalla mamma o dalla zia, e che queste ultime avevano agito a loro volta allo stesso modo. Chi conosce il mondo dei fornelli, domestici o di ristorante che siano, sa benissimo che chi è bravo a cucinare non accetta mai una ricetta, anche ottima, alla lettera, ma si ingegna e si arrovella per migliorarla. (Chi non è bravo a cucinare, d’altro canto, normalmente riesce a peggiorare qualunque piatto anche rispettando la ricetta, e certamente non contribuisce alla buona reputazione della tradizione…)
L’idea di progresso è presente in ogni piccolo aspetto della nostra quotidianità. Il cambiamento, il movimento, la ricerca del nuovo fanno parte del nostro essere. Se non ci vestiamo, non parliamo, non cantiamo, non balliamo, non viaggiamo, non ci divertiamo allo stesso modo dei nostri bisnonni, non si vede perché dovremmo tornare a mangiare come loro.
Eppure, nella nostalgia di un’inverosimile età dell’oro della gastronomia, si sono concentrate gran parte delle paure umane nei confronti di un progresso tecnologico tanto rapido da sfuggirci quasi di mano.
La paura del nuovo è subentrata al desiderio di novità. La ricerca sembra essere responsabile di crimini e sacrilegi. Si teme la scienza cattiva, la scienza della bomba atomica e degli additivi cancerogeni, della diossina, di Bhopal e di Chernobyl.
L’uomo, terrorizzato dopo aver varcato le colonne d’Ercole della conoscenza, vuole tornare a vele spiegate nelle acque calme del passato, che hanno il profumo rassicurante della crostata che la mamma sfornava a colazione, quando si era bambini e tutto andava bene.
Ma a quando risalirebbe la tanto sospirata età dell’oro? E’ divertente interrogare sull’argomento qualche tradizionalista ad oltranza. Mi è capitato addirittura di incontrare un sedicente custode delle tradizioni, convinto che già gli antichi romani mangiassero l’insalata caprese… In realtà la cucina degli antichi è diversissima dalla nostra, a partire dalle materie prime: il laserpicium, onnipresente nelle ricette di Apicio, si è estinto, noi non siamo più ghiotti di ghiri, e patate, mais, peperoni e pomodori ci sono arrivati dalle Americhe solo pochi secoli fa. Nel frattempo, ci siamo dati da fare inventando tecniche nuove per ricavare piatti prelibati da ingredienti antichi: la maionese, che sarebbe stata alla portata di qualunque popolazione mediterranea prima della nascita di Cristo, fa la sua comparsa nel XVIII secolo, più o meno insieme alla meringa, mentre Escoffier inventa la Pesca Melba in piena Belle Epoque. Le nuove materie prime, poi, ispirano ricette fantastiche, ignote ai popoli che prima ne erano gli unici fruitori: nel XIX secolo l’Europa è la culla del cioccolato, Torino ci regala il gianduiotto e Napoli la Pizza Margherita.
Ogni piatto della tradizione ha una sua data di nascita, e questa, di solito, è più recente di quanto non si pensi. Chi vi scrive, dopo aver mangiato per anni gli scialatielli durante i suoi viaggi in Campania, ed essendosi convinto che fossero un piatto moderatamente “antico”, ha avuto il piacere e lo stupore di conoscere di persona, pochi mesi fa, lo chef Enrico Cosentino che li inventò nel 1976… Questa esperienza recente mi ha confermato l’infondatezza di un altro luogo comune propugnato dagli ultratradizionalisti: l’idea che le novità nascano e si affermino con grande lentezza, e che lentissima sia l’evoluzione del gusto e della cucina. Niente affatto, signori miei: la gastronomia si evolve con improvvise discontinuità. Arriva il pomodoro e tutti vogliono la pummarola, arriva la tavoletta di cioccolato e tutti la divorano, arriva il frigorifero e nessuno riesce a farne a meno. Si tratta di autentiche “rivoluzioni gastronomiche”, che in pochi anni cambiano il mondo della tavola.
E proprio in questi anni stiamo vivendo l’ultima di queste rivoluzioni, che chiameremo quella della “cucina scientifica”. Cucina scientifica, si noti bene, e non “cucina molecolare”, come molti ancora vorrebbero chiamarla. Perché “molecolare” è un termine in qualche modo imposto dall’esterno a noi che quest’avventura la stiamo vivendo in prima persona. Un termine che suona a volte modaiolo e a volte inquietante. Un termine, soprattutto, riduttivo, che non rende giustizia a un’esperienza profonda e seria. La sua origine risale a un convegno organizzato ad Erice nel 1992, dal titolo “Molecular and physical gastronomy” (Gastronomia fisica e molecolare), il cui grande protagonista era il neo premio Nobel per la fisica Pierre Gilles De Gennes. Lo scopo di quell’incontro, che continua a ripetersi con una certa regolarità, era di “sdoganare” la cucina presso la comunità scientifica ufficiale: non dovevano più essere solo i tecnologi ad occuparsi di cibo, ma gli adepti delle cosiddette “scienze dure”, come la fisica e la chimica, che venivano per l’occasione invitati ad interagire con cuochi e pasticcieri. Chi frequenta l’ambiente scientifico può capire immediatamente il significato di quel titolo: era una maniera moderna, un po’ provocatoria e scherzosa, di dichiarare la volontà di studiare la gastronomia dal punto di vista della fisica e della chimica “fondamentali”. In una delle edizioni successive, il titolo venne abbreviato in “Molecular gastronomy”, che lo rendeva più agile e mediatico. Dall’interazione tra cuochi e scienziati, poi, iniziarono a nascere nuove idee ed anche tecniche e ricette di cucina, che, per analogia, qualcuno cominciò a chiamare “cucina molecolare”.
Le novità, si sa, fanno discutere, e le discussioni fanno pubblicità. Dopo un primo periodo di scontato scetticismo, prima i critici, poi un pubblico crescente, riconoscono che in quelle novità c’è del buono. Allora ha inizio la corsa al marchio: in tanti vogliono appropriarsi delle nuove tecniche di ispirazione scientifica, anche solo per potersi vantare di essere alla moda. Ma queste, in sé, non sono sufficienti per dare grandi risultati: allo chef occorre innanzitutto una notevole dose di buon gusto e, soprattutto, la capacità di mettere le tecniche al servizio di quest’ultimo. La “cucina molecolare” è solo una possibilità in più offerta al mondo dei fornelli, e il fatto di seguirla non può essere, da solo, una garanzia di qualità. Lasciamo allora perdere un nome così specifico e curioso: diciamo semplicemente “cucina scientifica”, per indicare che, nel cucinare, ci si avvale delle più recenti innovazioni proposte degli scienziati che si occupano, seriamente e professionalmente, di cucina. La qualità dipenderà dall’esecuzione, e dunque dallo chef, che si deve assumere il merito e la responsabilità del risultato. Questo cambiamento di prospettiva ci aiuterà a far giustizia delle tante frivolezze alla moda, di cui dicevamo all’inizio, e a conservare solo le autentiche innovazioni: perché queste ci sono, e sono tante. C’è un modo sicuro per capire quando una nuova idea gastronomica è destinata ad avere un futuro: verificare la sua capacità di essere assimilata dalla gente comune. Tutto ciò che non riesce ad uscire dal mondo dei grandi ristoranti difficilmente sopravvive ai cambiamenti della moda. Per questo, noi che crediamo nella nuova cucina scientifica, ci stiamo prodigando in un’intensissima attività di divulgazione. Tutti devono avere la possibilità di conoscere, provare e giudicare, per poter superare i pregiudizi e decidere in prima persona.
Il rischio della frivolezza, della cucina degli effetti speciali, scompare velocemente quando la conoscenza diffusa fa sfumare l’alone di mistero, quando quella che prima era per i più una sorpresa si avvia a diventare una consuetudine. E’ allora che subentra il desiderio della ripetizione, che è la prova concreta della validità dei contenuti e della capacità dell’invenzione di svilupparsi e farsi tradizione.
Il nostro cavallo di battaglia, negli ultimi tempi, è diventato il gelato all’azoto liquido. Non è certo l’unico apporto della cucina scientifica, e forse nemmeno il più importante, ma riunisce in sé una serie di aspetti che lo rendono emblematico e ne fanno un potente strumento di divulgazione.
L’azoto è il principale componente dell’atmosfera (circa il 78% dell’aria secca). Lo respiriamo continuamente, ci appartiene. Solo la diffidenza per tutto ciò che sa di nomenclatura scientifica ce lo può rendere apparentemente estraneo. A temperatura ambiente, e a tutte le temperature di qualche interesse in cucina, è un gas inerte, il che significa che non reagisce chimicamente con nulla. Diventa liquido grazie ad un trattamento puramente meccanico, un ciclo di compressioni ed espansioni, che dovremmo vedere all’opera per convincerci di quanto sia intimamente naturale. La temperatura di liquefazione, a pressione atmosferica, è di 195,8 gradi sottozero. Una temperatura non gastronomica: se lo mettessimo in bocca tale e quale ci provocheremmo delle serie ustioni da freddo. Ma nemmeno l’olio bollente, di solito, si mette in bocca, pur essendo un fondamentale mezzo di cottura. La differenza è che nell’olio bollente non ci sogneremmo nemmeno di mettere una mano, mentre nell’azoto liquido questo si può fare tranquillamente, a patto di non indugiare: esattamente come si può mettere, per pochi secondi, una mano nel forno caldissimo, o passare velocemente un dito sulla fiamma di una candela. Mi sembra assurdo insegnare che per maneggiare l’azoto liquido ci vogliono guanti e occhiali protettivi, quando da qualche millennio friggiamo senza usare scafandri da palombaro. Di nuovo, è la diffidenza per la scienza che spaventa, ma l’azoto liquido, in realtà, è estremamente amichevole. Non starò qui a tediarvi con dettagliate istruzioni pratiche e precauzioni d’uso, che peraltro ho già discusso abbondantemente nel libro “Il gelato estemporaneo”. Mi preme solo farvi notare che il nostro liquido criogenico ha tutte le carte in regola per entrare nelle nostra prassi culinaria senza sconvolgimenti, e, una volta entrato, restarvi per sempre.
Sono sicuro che i bianchi vapori freschi, che si sprigionano dalle pentole irrorate di azoto liquido, diventeranno presto parte della scenografia quotidiana delle nostre cucine. Che le mamme prepareranno ai bambini, ogni volta che lo chiederanno, un morbido gelato di fiordilatte in pochi secondi, versando l’azoto anche solo su un bicchiere di latte e panna freschissimi, certe di preparare un prodotto più gustoso e più sano. Realizzare un gelato estemporaneo è quasi banale: si mette la base liquida da trasformare (un succo di frutta, o latte, o crema inglese, o caffè, o vino, o olio aromatizzato, o quello che vi pare…) in una pentola metallica; poi, senza aggiungere additivi o porcherie chimiche di sorta, si versa l’azoto liquido e si mescola. L’azoto, a contatto con la base, per lui caldissima, evapora estraendo aromi, così la raffredda velocemente e la gonfia di tante piccolissime bollicine profumate. Tutto è fisico, tutto è naturale. Non avvengono reazioni chimiche che alterano la natura degli ingredienti, e alla fine ci troviamo con un gelato di qualità diversa e superiore. Più cremoso, perché i cristalli di ghiaccio che si formano sono tanto piccoli da non essere percepiti dalla bocca. Più aromatico, per la presenza delle bollicine profumate. Meno “freddo”, perché, pur avendo temperature simili a quelle degli altri gelati, contiene meno ghiaccio e dunque lascia la bocca piacevolmente fresca senza congelarla.
Il gelato estemporaneo è la preparazione più semplice e più ovvia che si possa realizzare con l’azoto liquido. La cucina del grande freddo è solo agli inizi, questo dev’essere chiaro. Ma iniziando con una ricetta alla portata di tutti, si può innescare un processo di profondo cambiamento. E’ una ricetta democratica: nessuno può vantarne seriamente la paternità. I fisici preparavano il gelato estemporaneo già più di un secolo fa. Semplicemente, ci sono voluti più di cent’anni per capire che si trattava di un’innovazione gastronomica e non di un gioco. La tecnologia necessaria esisteva già a fine ‘800: la novità sta nel cambiamento del punto di vista. Ora anche gli scienziati cominciano a guardare le cose con l’”occhio gastronomico”. E’ un “cambiamento di paradigma” potremmo dire, parafrasando l’epistemologia di Kuhn. Ma i cambiamenti di paradigma, nella scienza, sono le rivoluzioni.
Davide Cassi
Prof. Cassi, lei è un mito.
L’ho vista in azione a Caldogno, e volevo venire a stringerle la mano, ma non l’ho fatto. Io studio matematica, e forse quel giorno ero tra i pochi “scientifici” presenti in sala. La prima cosa che mi sento di dirle è questa (e sicuramente ne è pienamente consapevole). Trovo che la cucina scientifica vada fortemente divulgata, ma anche che sia a sua volta un ottimo strumento di divulgazione scientifica, nel senso che grazie al cibo, ai sapori, ecc., si può arrivare ad affascinare e ad interessare persone che di scienza ne hanno vista ben poca, trasmettendo conoscenze (o “coscienze”) scientifiche ben più generali, di fisica e di chimica (per non parlare di matematica, es. i frattali). Sicuramente ne è pienamente consapevole, ma credo serva anche averne conferma ^_^.
Tra l’altro, il metodo adottato per divulgare queste nozioni è forse il più divertente che abbia visto fin’ora, quindi ancora grazie
Sono cuoco e da qualche anno sto cercando di cambiare il mio approccio alla cucina. Spesso quello che s’impara e dopo si ripropone è un continuo “copia incolla” e non si fa altro che ripetere operazioni in modo automatico. A volte la ricetta del nonno viene tramandate alle altre generazioni e questa ripetuta all’infinito senza nessun cambiamento radicale , accade perché chi si ritrova la ricetta tra le mani non sa apportare modifiche contrariamente a quello che avrebbe potuto fare colui che l’ha creata. La non padronanza della materia mi ha portato a studiare e ad approfondire alcuni argomenti che solo qualche anno fa non avrebbero attratto la mia attenzione, ma che sono trattati e divulgati dal professor Cassi in modo chiaro. Ho creato alcune ricette, seguendo quest’approccio scientifico alla cucina e ci tengo ad affermare che faccio tutto a casa per sottolineare il fatto che bastano pochi strumenti e ingredienti d’uso comune per poter creare piatti semplici, sani e buoni e belli ma allo stesso tempo“trasparenti”.
Gent.mo Prof. Cassi,
mio figlio si è iscritto al 3° anno di un istituto tecnico industriale, specializzazione “tecnologie alimentari”. Gradirei sapere quali prospettive future potrebbero esserci in ambito lavorativo.
La cucina scientifica, potrebbe avere attinenza con il suo percorso di studi? Può indicarmi eventualmente qualche link utile, soprattutto di interesse scientifico? Nel ringraziarla anticipatamente, continuo a seguire con interesse le sue trasissioni. Alessandro
Gent.mo Alessandro,
la cucina scientifica rientra senza dubbio tra le possibili attività future di suo figlio. Se il suo desiderio è fare ricerca in questo settore, gli consiglio prima di tutto di iscriversi all’università frequentando un corso di laurea scientifico “di base” (fisica, biologia, chimica). Contemporaneamente al corso, dovrebbe coltivare il lato gastronomico, cucinando, assaggiando prodotti di ogni genere, leggendo pubblicazioni specializzate e magari passando anche un po’ di tempo nella cucina di un ristorante.
Quanto ai link, per chi conosce l’inglese, un ottimo riferimento è http://blog.khymos.org/.
Se ha qualche curiosità su argomenti specifici di cucina scientifica non esiti a chiedere: il nostro blog serve anche a questo!
Se poi suo figlio desiderasse vedere di persona come si svolge l’attività di ricerca, lo invito fin da ora a visitare il mio laboratorio.